Blackout per la luce della speranza –
Incontro Roberta al tavolino del nostro bar. Quello in cui tante volte abbiamo fatto colazione insieme, o festeggiato con un aperitivo successi, gioie, speranze. Ma questa volta non c’è luce nei nostri occhi. Solo il buio, velato di lacrime, di una decisione che non si può più rimandare. Ribadisco a Roberta che la mia priorità è quella di salvare il bambino, ma che non le posso garantire che torneremo ad essere felici insieme, costituendo una famiglia serena. E che non voglio che lei consideri il bambino come uno strumento per il nostro riavvicinamento. Roberta mi ribadisce che questo non le basta. Che accanto a sé e al bambino vuole anche me. Non i genitori miei e suoi, o chiunque altro sia disposto ad aiutarla. Ad aiutarci. Ma me e nessun altro. Io non me la sento di darle questa garanzia. Forse, se veramente ci tenessi a salvare la vita del bambino, come annuncio e ostento, potrei farlo. Ma non voglio ingannare Roberta. Non più. Il dado è tratto… Nel tardo pomeriggio di quattro giorni dopo arriva una telefonata, dopo ore di attesa angosciosa. “Il bimbo non c’è più, Marco. È finita”. Per me è l’istante più tremendamente orrendo di una vita che soltanto ora avverto fino in fondo quanto abbia perso di significato. Quanto si sia irrimediabilmente svuotata. Cammino per ore, senza meta come un automa. La testa mi scoppia. Non riesco a respirare. Vorrei sparire anch’io. Per sempre. Perché sento che non c’è via di fuga a quel rimorso. A quel dolore. Dopo molti mesi non passa ancora giorno in cui la luce della speranza, accesa soprattutto da una fede in Dio finalmente ritrovata, non patisca un black out più o meno lungo… Su quel letto d’ospedale, insieme a quel cuoricino che ha cessato di battere è morta anche una parte di Roberta e di me. Resuscitarla sappiamo entrambi che non è possibile. Che indietro non si torna. Che quel dolore, quel tormento, quell’angoscia, sono forti e soffocanti, quanto mai – pur nella consapevolezza della scelta che stavamo per compiere – avremmo immaginato. E che, per quanto affievoliti dal tempo e dagli eventi, li porteremo con noi per sempre. Ma so anche che una colpa altrettanto grande sarebbe quella di continuare a ripiegarmi sulla sofferenza e lasciarmi andare… Per questo vi scrivo: perché attraverso lo strazio di una morte sento di aver compreso più pienamente il valore della vita, e che questa mia rinnovata consapevolezza potrebbe essere di aiuto a chi, in un momento difficile, non dovesse riuscire a coglierne la straordinaria importanza, magari offuscato da debolezza, angoscia, paura. La vita non fa paura. Non può. Non deve. Tutto ciò che può, che deve far paura è decidere di rinunciarvi.
(“Il foglietto che ci informa”, luglio 2007)